Il reddito come alleato del welfare: intervista a Sandro Gobetti (Basic Income Network Italia)
Articolo pubblicato il 21 aprile 2020
Nel pieno della seconda ondata di COVID che ha investito l’Italia, questo articolo torna d’attualità. Le misure d’emergenza stanziate dai governi aprono le strade a nuove idee e sperimentazioni di lavoro, diritti e reddito. Sandro Gobetti, di “Basic Income Italia” ci parla di reddito minimo garantito.
Il reddito universale e il reddito minimo accompagnano la giustizia sociale e la rivoluzione tecnologica. Ecco come.
La proposta del “reddito di quarantena” in Italia riporta l’attenzione sul tema del reddito minimo e del reddito di base. Noi di Change The Future abbiamo trattato l’argomento con il coordinatore dell’associazione “Basic income network Italia”, Sandro Gobetti.
Sandro Gobetti è un ricercatore sociale, scrive per la rivista Infoxoa, e da decenni realizza ricerche sui modelli di welfare e sul mondo del lavoro. Persegue l’obiettivo del reddito di base come diritto umano fondamentale, per definizione universale.
Che cos’è il Basic income network Italia?
Il BIN, rete italiana del Basic income earth network (BIEN), studia gli effetti di diverse forme di reddito, sperimentate in varie aree del mondo. L’associazione italiana ha qualche centinaio di soci tra ricercatori, economisti, sociologi, giuristi, semplici cittadini, disoccupati, studenti e lavoratori.
Da quanto e in che modo è attiva BIN?
In 11 anni di attività, abbiamo prodotto moltissimi studi, pubblicazioni, ricerche e proposte di legge. Abbiamo seguito importanti ricerche europee e internazionali. Nel 2009, abbiamo partecipato alla stesura della proposta di legge 4, per il reddito minimo garantito nel Lazio, e, negli anni, a campagne da migliaia di firme per proposte di legge analoghe in tutta Italia. Ci riuniamo ogni anno, come rete mondiale, a congresso in un Paese diverso.
Cosa pensate del reddito di quarantena?
Piuttosto che proporre una legge ad hoc, spingiamo affinché si estenda il reddito di cittadinanza ad una platea più ampia di beneficiari. Seppur migliorabile, il reddito di cittadinanza è già legge. Vorremmo che si ampliassero i criteri di questa legge e che si eliminassero le condizionalità, cioè gli obblighi al lavoro, che in questa emergenza non hanno senso. Molte persone che hanno bisogno del reddito minimo già lavorano, ma occasionalmente o con contratti privi di alcuna garanzia. Il reddito di quarantena è fondamentale ora, per dare sostegno a chi fatica a fare la spesa, a pagare l’affitto e a chi è in cassa integrazione. L’iniziativa, oltre alla valenza sociale, è una spinta verso l’universalizzazione del reddito.
Che ruolo ha il reddito nell’economia europea?
Nell’UE, il reddito minimo garantito è stato, a detta della stessa Commissione europea e del Parlamento europeo, lo strumento più utile per contenere la crisi del 2008. Nonostante i tagli subiti con l’austerity, le forme di reddito sono sentite da molti come un investimento piuttosto che una spesa pubblica, in un piano più ampio di welfare.
Quali Paesi hanno già dei modelli di reddito?
Molti Paesi europei offrono, con le loro sperimentazioni, ottimi esempi di reddito minimo garantito, mentre il resto del mondo sta testando il reddito di base universale.
In Alaska esiste il Permanent dividend fund: inserito nella Costituzione, il fondo prevede che parte dei profitti delle stazioni del petrolio sia distribuita tra i 700 000 abitanti. Ogni abitante riceve 2.500 dollari al mese, a prescindere da età, sesso e occupazione. Questo perché la terra da cui si estrae il petrolio è una risorsa dell’intero popolo, non solo dei privati che la trivellano.
In Namibia, invece, il reddito universale è stato testato per due anni nel villaggio di Otjiveero. Si è creata una coalizione civile tra protestanti, chiese evangeliche, luterani, sindacati di base, organizzazioni contro la povertà, e il governo stesso. I risultati sono eccellenti: la malnutrizione è calata, è aumentato l’uso dei farmaci contro l’HIV, la scolarizzazione ha fatto passi avanti. E’ stato bellissimo vedere i bambini tornare da scuola e insegnare a leggere e a scrivere ai genitori analfabeti.
Nello stato di Madhya Pradesh in India il reddito universale, per 5000 persone, ha dato risultati analoghi. Rimanendo sempre in India, la SEWA (Self Employment Women Association), il maggior sindacato femminile del Paese con quattro o cinque milioni di iscritte, ha usato il reddito di base per creare cooperative del tutto autosufficienti. Hanno costruito un’economia nuova da zero.
Ma gli esperimenti non si sono svolti solo nel sud del mondo.
In Ontario, dopo un test di 2 anni su 5000 persone, un centinaio di imprenditori stanno lottando per estendere il reddito a tutti e, complice l’emergenza in corso, la misura è nell’agenda del governo Trudeau.
Con i finanziamenti di fondazioni legate alla Silicon Valley poi, la città di Stockton si è risollevata dalla bancarotta, istituendo un reddito minimo garantito e riconvertendo le economie locali.
Infine c’è il caso di Gyeonggi in Corea del Sud che dal 2019 eroga, a tutti i ventiquattrenni del Paese, un reddito incondizionato di 800 euro al mese.
E invece in Europa?
In Finlandia si sta testando il reddito minimo garantito su 2000 persone. A dicembre 2020 avremo i risultati, ma sappiamo già che le persone ne stanno facendo buon uso: c’è chi inizia progetti autonomi, chi si forma, chi cura piccole attività e imprese.
In Scozia, invece, il primo ministro Nicola Ferguson Sturgeon ha avviato uno studio di fattibilità per misure simili. Il reddito permette di decidere cosa fare della propria vita, invece di accontentarsi di un lavoro qualsiasi per sopravvivere. Lo studio di Sturgeon rientra in un desiderio di riscoprire l’autonomia individuale e nazionale, complice la stessa Brexit.
Che cosa pensi del welfare italiano?
Il welfare italiano è troppo frammentario, tanto che molte misure sono sconosciute ai cittadini. In base all’impiego, entità e durata dei sussidi variano, e di molto. Per questo noi di BIN abbiamo pubblicato delle schede riassuntive dei diversi sussidi esistenti, da distribuire nei centri per l’impiego. Volevamo fotografare il welfare italiano nel suo complesso e informare i cittadini dei loro diritti. Volevamo rendere il linguaggio giuridico di centinaia di articoli e migliaia di commi fruibile a chiunque.
Che cosa pensi del reddito di cittadinanza?
Penso che sia un passo positivo per dare uniformità al nostro welfare. Al momento, però, è molto limitato e non include la fascia di povertà relativa. Il termine “di cittadinanza” è usato impropriamente: somiglia più ad un reddito di ultima istanza, sottocategoria del reddito minimo garantito, che prevede criteri di accesso e obblighi. Spesso per accedervi bisogna essere sotto la soglia di povertà, o dimostrare lo stato di necessità con il means test, e i beneficiari devono accettare il lavoro che viene offerto loro. Oggi in Italia ne usufruiscono più di un milione e 250 mila persone ma molte altre non hanno fatto domanda o hanno rinunciato, perché lo considerano troppo vincolante.
Perché credi nel reddito di base universale?
La forza del reddito universale è che mira a non farti diventare povero, mentre quello minimo garantito agisce quando lo sei già. Lo vedo come un elemento chiave per una nuova economia di ridistribuzione delle ricchezze, e come garante del diritto a condizioni di vita dignitose, alla libertà di scelta e all’autodeterminazione.
Il reddito di base può costituire un disincentivo a lavorare?
In
cinquant’anni di dibattito questa obiezione viene periodicamente fuori, ma è
ormai superata dai fatti. In Paesi dove il reddito minimo garantito è una
realtà, ad esempio nei Paesi scandinavi, si osserva l’effetto opposto. Un
welfare più virtuoso fa sì che le persone, libere da turni di lavoro
massacranti ad esempio, abbiano il tempo di finire gli studi e formarsi. Dove questo
sistema manca, come in Italia, la gente fa qualsiasi cosa per campare, dai
lavori in nero alla microcriminalità.
In alcuni comuni della provincia di Utrecht i test hanno mostrato che, tra i
beneficiari del reddito, chi non ha l’obbligo ad avere un impiego è più attivo
rispetto a chi lo ha. Il problema è che non ci fidiamo della nostra stessa
società. Non ci rendiamo conto che, come noi, tutti hanno delle cose da fare e
delle idee da sviluppare. Troppo spesso il denaro è visto solo come un mezzo di
scambio, non come un’opportunità.
Che legame c’è tra l’“avanzata delle macchine” e il reddito?
La rivoluzione tecnologica, soprattutto quella informatica, stanno rivoluzionando il mondo del lavoro. Negli ultimi trent’anni c’è stata una forte precarizzazione del lavoro. Ormai i lavori sono in larga parte “a tempo”, e sono nati i cosiddetti “working poor”. L’incredibile sviluppo della robotica e dell’intelligenza artificiale mette in discussione centinaia di migliaia di professioni e milioni di posti di lavoro. Per questo il dibattito sul reddito è così urgente in tutto il mondo.
Che ruolo hanno i big data in tutto ciò?
Lo definirei centrale. I big data che produciamo utilizzando social, app e rete valgono quanto il petrolio oggi. Si stima che se un terzo della ricchezza così prodotta fosse distribuita a tutti gli americani, ognuno avrebbe 20.000 dollari l’anno. Le aziende comprano e vendono i dati, li scompongono, li rielaborano, così da profilare i consumatori e inserire annunci ad hoc. Ma c’è dell’altro: le IA (Intelligenze artificiali) si nutrono dei nostri dati per fini di ricerca e sviluppo. Ad esempio, un robot che si trova a Zurigo, studiando circa 15 milioni di cartelle cliniche sarà in grado di definire cure ad personam per ogni diagnosi. Un essere umano le studierebbe in 500 anni, lui ce ne metterà 10.
Gli stessi imprenditori della Silicon Valley supportano il reddito di base per chi produce big data, ne hanno estrema necessità. Tutti noi siamo “prosumers” – producers consumers – di dati, “di lavoro informatico”. WhatsApp è stata pagata 18 miliardi di dollari da Zuckerberg. Questo è uno dei motivi.
Culturalmente, siamo pronti per il reddito di base?
In molti vogliono il reddito di base solo per chi è estremamente bisognoso, con l’approccio proprio della carità cattolica. Negli ultimi anni però si discute dell’idea di un reddito volto alla crescita culturale e professionale. Negli anni ’90 alle nostre riunioni sul reddito venivano in dieci, ora se ne parla in televisione tutte le sere.
Perché bisogna battersi per questa causa?
Perché la proposta del reddito è una delle poche che offre una prospettiva migliore per il ventunesimo secolo. Perché mette mano alle grandi economie attraverso la carbon tax e la suddivisione della ricchezza mondiale. Il reddito è uno degli antidoti ai problemi di domani.
Come ti sei appassionato al tema?
Negli anni ’90, con i primi studi sul tema e il dibattito tra movimenti sociali, mi sono incuriosito. Alcuni anni prima, viaggiando per l’Europa, vedevo che i miei coetanei seguivano i loro sogni con l’aiuto di sussidi nazionali. Noi in Italia facevamo lavoretti improvvisati a vent’anni per riuscire a vivere da soli. In quegli anni esplodevano i Clash: chissà, forse senza il reddito minimo inglese sarebbe andata diversamente.
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